Fino a qualche tempo fa, ogni anno un insegnante di fama mondiale teneva un seminar nella nostra città. Per l’occasione arrivavano praticanti da mezza Europa. Uno di questi ci ha fatto dono della sua pazienza, dedicandosi a noi, che venivamo da altre impostazioni tecniche, permettendoci di decodificare la proposta didattica.
Diventati nel tempo amici, durante uno di questi seminar, confidai a lui la mia difficoltà nel relazionarmi con quella tipologia di praticante che sembra insensibile. Quella che, per intederci, porta la tecnica colpendo forte (a mano nuda o con un’arma) e/o esasperando la leva articolare.
Mi ricordo perfettamente la risposta, data attraverso un aneddoto:
“Mi è successo il mese scorso con una persona. La prima volta gli ho detto: ‘Mi fai male’.
La seconda: ‘Mi fai male’
La terza: ‘Ti fai male’.
Così, quando è arrivato per farmi male, sono entrato io“.
A dire il vero, mi ha sempre fatto ribrezzo dover ricorrere all’imposizione “fisica” a causa del fallimento della comunicazione verbale. Ho molto vivo il ricordo dell’atmosfera che si respirava molti anni fa nel corso di Karate che frequentavo. Altri tempi, non necessariamente indimenticabili.
Certamente altre sensibilità. O meglio, altre insensibilità.
Sviluppare l’empatia non era certo la priorità degli allenamenti, che dovevano piuttosto essere tecnici, sfibranti e orientati all’impatto. La comunicazione verbale, quando c’era, era monosillabica. Tanto tra il sensei e noi, quanto tra noi.
Questo, da quello che vedevo, valeva per tutte le discipline. Le classi di Aikido in parallelo ai nostri allenamenti rappresentavano degnamente il concetto di carpenteria pesante, al pari dei nostri kumite.
Esattamente come succede in natura, la spinta evolutiva modifica le condizioni di pratica. Non è però raro trovare ancora qualcuno -non necessariamente di mezza età- per il quale, citando Philippe Gouttard Sensei:
“Sangue è profumo di guerra”. (Leggetelo con accento francese ma pensando a “L’ultimo samurai”).
Nella sua versione più diffusa, si tratta di un amarcord vivente. Di una persona che fin da giovane ha calpestato molti tatami, crescendo e sopravvivendo tanto alle mazzate quanto a didattiche incomplete e confusionarie.
Quel tipo di persona insomma che a ogni benedetto seminar, arriva e inizia a mostrarti la tecnica che lui ha imparato da chissà quale insegnante di giudogiugizzusuperpower del Miocuggino Ryu nel passato.
Il segreto qui è trarre beneficio dall’essere cresciuti (anche) in bocciofila, in mezzo ai coetanei dei tuoi nonni e capire che in fondo basta resistere quei cinquanta minuti di aneddoti non richiesti. Se ti tirano la tecnica e glielo fai notare, chiedono scusa e smettono. Poi magari riprendono ma non sono cattivi. Sono dei bravi ragazzi un po’ invecchiati.
Ma che fare con gli altri? Specie con quelli che non hanno nemmeno il beneficio del dubbio dato dall’età?
Glielo dici ed è come se parlassi al muro.
Quando è il tuo turno imposti la tecnica senza fare loro male ma il linguaggio tecnico-fisico, pare essere un canale spento.
Che fare? Farsi far male? Interrompere l’esercizio e chiamarsi fuori?
Le ho/le abbiamo provate di tutte.
A volte abbiamo richiamato l’attenzione del Sensei per chiedergli di valutare il nostro scambio. E’ successo che questo abbia riportato la pratica nei canali del rispetto. Ma è anche successo che il Sensei si sia talmente arrabbiato al punto di fare lui la tecnica e fare davvero molto male alla “pecorella smarrita sul tatami”.
A volte abbiamo alzato i toni verbali, di fatto peggiorando la situazione.
In alcune occasioni abbiamo usato il metodo “Mi fai male, ti fai male”.
In tutti i casi non è stato un bel momento.
Forse chissà, quando non ci sono i presupposti per una relazione, sebbene confinata nella cornice di una tecnica, insistere è semplicemente stupido. Tanto meglio sarebbe semplicemente sottrarsi ad un gioco disfunzionale. Obbligare l’altro a fare del male -controvoglia o meno- per entrare in relazione è un meccanismo decisamente contorto.
In questo “lasciare andare”, forse c’è più Aikido di quanto non ce ne sia in attività ad alto ritmo e impatto. Esistono, nel Dojo e fuori, persone che arrivano, saluti e semplicemente ti attraversano, come se fossi trasparente.
Ci sono, sul tatami e fuori, persone che senza un perché esplicito, entrano in conflitto e sembra che vogliano dialogare soltanto col linguaggio del dolore inflitto e subito.
Ecco, tutte queste situazioni sono verosimilmente semplicemente da lasciare andare. Perché la pratica, come la vita, chiede tutto e ti spreme. Ti schianta a terra e richiede che ti rialzi, ancora e ancora e ancora.
Può anche ogni tanto portarti qualche dolore.
Ma se inizia ad esigere sofferenza; se la pratica è una gara di resistenza a chi sopporta più dolore, se le relazioni diventano una sfida a chi ignora di più l’altro, allora c’è qualcosa da correggere o, lentamente e inesorabilmente, la pratica stessa disintegrerà l’individuo.
Disclaimer: Foto di Pixabay